Le direttrici del mio dipingere si possono semplificare a tre primarie pulsioni:
1) una, leggermente onanistica e vagheggiante, è quella del piacere del fare: in un periodo in cui l’universale rifiuto dell’arte rischia di sbriciolare la proporzione e con essa l’idea di sopravvivenza, questo piacere del fare e il mio professionale anarchismo (fino ad ora né critici né mercanti) mi permettono l’inosabile: anche di essere 10, 100 pittori in un unico esasperante figlio della malinconia.
2) La seconda è l’amara spinta che mi offre la consapevolezza che tutto è già stato dipinto e che nella maniera sia la sola possibilità, in questo grave momento di declino, di sopravvivenza del bello. Del resto la maniera ha sempre avuto una funzione magicamente rigeneratrice.
3) La terza spinta nasce dalla convinzione che le nostre realtà fisiche e morali siano subordinate all’universale dialettica, alla modificazione, al passaggio da una condizione all’altra. Dietro al mio sfrenato eclettismo non c’è che l’evoluzione di una mia giovanile indagine intorno alle infinite possibilità di rappresentazione offerte dal quadrato, dal cerchio e dal triangolo (che stupore il gioco dell’inscrivibilità, delle interazioni di questi tre determinati assiomi della nostra cultura!).
Non mi è stato difficile proiettare queste forme su molteplici campi pittorici (geometrico-descrittivo, geometrico-narrativo e antropomorfico).
L’uso sfrenato di materiali (tecnologie e ideologie) eterogenei, sempre nella splendida dialettica dell’infinita rappresentazione, mi costringono a vivere una piacevole e solipsistica odissea artistica.
Carta, vetro, sabbia, ossidi, legno, resine e pigmenti di natura diversa impongono all’espressione modificazioni a volte impercettibili e a volte radicali. Posso rappresentare un quadrato in un milione di modi, con un milione di materiali diversi, in situazioni volumetriche e spaziali ineluttabilmente non quantificabili.
Ora posso rappresentare la Pittura secondo questo principio sperimentale (dominato dalla stessa padrona, la precarietà, che incombe sulla forma da me amata ed affannosamente inseguita).
È la rappresentazione della precarietà con le sue indecenze e i suoi corrosi giochi di specchi a coordinare le mie immagini e la mia concezione delle labili cose del mondo.
La regola della modificazione, prima o poi, potrà impormi delle situazioni di stasi, ma il mio gioco è ormai codificato in questo improbabile e sconveniente meccanismo.